A seguito del mio interesse per la prodigiosa statua lignea conservata nel Duomo di Marcianise, l’amico Donato Musone mi ha regalato una ristampa anastatica di “Marcianise e il S.S. Crocifisso” scritto nel 1906 dal sacerdote Raffaele Iodice, per saziare la mia sete di conoscenza. Dal testo si evince che i cittadini si affidarono al Crocifisso per problemi di vario genere: “A Lui ricorse sempre con viva sede Marcianise, sia che il cielo, fatto di bronzo, negò una stilla delle sue benefiche piogge alle campagne inaridite, sia che per le abbondanti acque recò danno alle seminagioni; a Lui ricorse se crudo morbo a mille mietè le vite, a Lui se la terra tremò, o il formidabile, ster¬minatore Vesuvio seminò la desolazione morte e fè cadere densa pioggia di cenere; e sempre Gesù Crocifisso esaudì i Marcianisani, che alla sua immagine si abbracciavano e mandavano i sospiri e i voti più ardenti del loro cuore. Certo sarebbe nostro desiderio e insieme no¬stra grandissima consolazione mostrare in tutti i particolari lo spettacolo grandioso e commovente dei fedeli, prostrati ai piedi del Crocifisso nei giorni della sventura per impetrar grazie, e nell’ora in cui scioglievano il loro inno di ringraziamento, perché esauditi. Ci restringiamo ad esporre fatti più importanti. Come pure tralasciamo di ricordare inimicizie spente, la pace domestica ridata alle famiglie, guarigioni ottenute, e le numerose grazie spirituali, che sono le più belle e più desiderabili, e che G. Crocifisso ha concesse anche in gran numero. Faremo parola di alcune grazie temporali le quali riescono efficaci a vantaggio della nostra fede, come quelle che colpiscono maggiormente i nostri sensi, dai quali, chi più chi meno, ci facciamo guidare negli affetti del nostro cuore”. Particolarmente ricco di particolari è il racconto sui danni provocati dal Vesuvio, l’intervento del Crocifisso e la gratitudine della città per la grazia ricevuta: “Fin dai primi di aprile un panico indicibile aveva invaso tutti alla vista del grosso pino che si innalzava terribilmente maestoso sul cratere del Vesuvio. Grazie al Cielo, un leggiero venticello sospingeva cenere e lapillo al mare. Il giorno 12 però, il vento cambiò direzione e sul nostro capo si distese una densa, nericcia nube, che il dì seguente cadde in pioggia minutissima di polvere friabile, rossastra. Il Signore volle che la non fosse a lungo durata e al Sabato Santo, 14 aprile, propriamente quando nella Collegiata cominciò il canto sublime dell’Exultet, un venterello tolse dinanzi al sole quella nube, e la luce vicificante, l’alleluia cantato dai sacerdoti, il suono della campana, che annunziava la Risurrezione parvero ritornare la speranza nel cuore di tutti, specie dei Contadini, seriamente impensieriti per i seminati. Breve spe¬ranza! Eravamo ai 18 di aprile; il cielo da due giorni era divenuto di color fosco: la cenere lenta, sottilissima cadeva; il respiro pareva soffocato, a cento metri non si distingueva cosa alcuna. I giornali annunziavano che in città non noi molto lontane da noi era buio pesto, il transito impedito, le campagne sotto uno strato di cenere alto dove più, dove meno di mezzo metro; i seminati tutti andati perduti: alcune tettoie sprofondate sotto il peso di cumili di lapilli. E la cenere cadeva incessante, essiccante e, quantunque nel nostro tenimento non avesse raggiunta l’altezza di due centimetri, pure dannosa per le campagne, perchè, uscita bruciante dall’ immensa fornace del Vesuvio, sottraeva alla terra l’umidità tanto necessaria al primo sviluppo di qualsiasi seme. La sera di detto giorno la pioggia di cenere crebbe di intensità; s’aggiunse un vento cosi forte che, spazzandola dai tetti e sollevandola dalle strade, faceva un turbinio spaventevole. Parevano sconvolti e cielo e terra; porte e finestre malferme furono sbattute, alcune atterrate; sinistri bagliori accesero l’aria per qualche istante, e il cozzo dei venti furiosi mandava un fischio cosi cupo, che sembrava il finimondo. Grida assordanti si levarono al Cielo; si fece per le vie gran folla, che si riversò nella Chiesa parrocchiale, aperta con violenza; tra le grida e le lagrime di tutti fu deposta dalla nicchia la immagine del Crocifisso e collocata sopra un trono improvvisato, intorno a cui ardevano ceri a centinaia. Si stenterebbe a crederlo, se non; fossimo stati testimoni oculari: cessò tutto all’istante, e quando si tornò a casa, quel cielo che poco prima minacciava lo sterminio, era abbellito da qualche stella, che qua e là luccicava. All’alba un’acqueruggiola scendeva benefica sui campi, e quella cenere che avrebbe certamente inaridito, soffocato il seme e costretto i coloni a seminare di nuovo, si convertì in ottimo concime. Ora i contadini non credono ai loro occhi, vedendo la canape, il grano crescere rigogliosi, indizio certo di buona raccolta; laddove in paesi confinanti, ci duole il dirlo, o s’è dovuto spargere novellamente il seme, o la vegetazione viene su a stento. Di tanto beneficio, che tutti ascriviamo alla potente protezione del SS. Crocifisso, vollero i fedeli dare in segno di gratitudine, senza aspettare il giorno della festa annuale dell’Esaltazione della Croce, che si celebra ai 14 settembre. Messe quotidiane furono celebrate colle loro elemosine per oltre un mese; furono donati tanti ceri che, quantunque sempre accesi e in gran numero , ne avanzano dopo cinque mesi. Molte offerte ci pervengono da paesi vicini, da Napoli e dalle lontane Americhe e mandano il loro obolo per concorrere alla festa che si farà in onore del Crocifisso; quanti insomma hanno agio di venire a Marcianise si recano prima di tutto in Chiesa a pregare ai piedi di quella Immagine, che ha fatto dei Marcinisani un popolo prediletto”.