Sabato mattina mi alzo dal letto di una camera immersa in un mare di verde e di pace nei pressi del luogo ove riposa il San Francesco dei poveri , per accendere il pc e dare sguardo a cosa accade nel mondo. Ancora assonnato, mentre scorro la home di facebook, mi imbatto nelle foto dei cadaveri di 5 o 6 bambini in riva al mare. E’ talmente duro , violento , angosciante l’impatto che ipotizzo di trovarmi nel pieno di un brutto sogno. Allora struscio i pugni sui miei occhi per svegliarmi, ma quell’immagine non scompare. A questo punto, non mi resta altro che prendere atto della realtà e mi sovviene il dubbio che si possa trattare di un’immagine di repertorio di quei bimbi uccisi l’anno scorso sulla spiaggia di Gaza da motovedette israeliane mentre giocavano tra le reti dei pescatori. Approfondisco e appuro che non è cosi: sono bambini annegati nel tentativo di raggiungere l’Europa e restituiti dal mare sulle spiagge. Di lì a qualche giorno, la carneficina continuerà: viene ritrovato su una spiaggia turca il corpo del piccolo Aylan , in fuga dalla guerra con la sua famiglia, per raggiungere i loro parenti in Canada. Nel naufragio della barca su cui stava viaggiando oltre a lui che aveva appena 3 anni, sono morti anche il fratello e la madre, solo il padre è sopravvissuto e tornerà il prima possibile a Kobane, città di confine tra Siria e Turchia, per organizzare il funerale dei suoi familiari. Dopo queste stragi, che quanto meno dovrebbero accendere un barlume di riflessione in tutti ,e in particolare , in chi per mesi ha seminato la paura dello sbarco di efferati criminali sulle nostre coste, non c’è più tempo e spazio per polemiche, inutili piagnistei, balletti delle responsabilità, indignazione d’ occasione da mostrare su giornali, social poi domani per quei poveri cristi Dio vede e provvede. Oggi è tristemente giunto il momento di non nascondersi più dietro ad un dito, di assumere posizioni alla luce del sole, di operare scelte rispetto ad un dramma che ci coinvolge come uomini, cittadini del mondo e abitanti di una nazione tra le più civili e solidali sulla faccia della Terra. Il non decidere è decidere di restare in una situazione che umilia, uccide i più sfortunati e strazia le coscienze di tanti. Inizierò io nel dire come la penso, senza prestare fianco ad alcuna ambiguità, nel modo più netto e chiaro possibile: io sto nel solco tracciato dall’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, che apre le chiese ai migranti richiedenti asilo e li coinvolge in piccoli lavoretti di pulizia nelle strutture ecclesiastiche.
In dettaglio, la Diocesi metterà a disposizione altri 6 immobili tra case e strutture per un totale di 130 posti, che si vanno ad aggiungere a quelli già resi disponibili in passato, coinvolgendo i fedeli e gli abitanti del quartiere per creare un clima di amicizia e dialogo. Ciò che muove l’arcivescovo è la ferma convinzione che i migranti su base volontaria possano partecipare con il loro lavoro alle esigenze della comunità, e che l’ accoglienza è un’occasione di educazione nella fede e di edificazione di vita buona.
C’è da augurarsi che anche altre Diocesi seguano l’esempio di Milano, e che lo stesso Stato attui un censimento di caserme e altre strutture dismesse, per procurare eventualmente un tetto ai migranti in cambio di lavori di pubblica utilità.
Mi preme ribadire , però, quanto ho già più volte sottolineato ossia che il problema immigrazione non può e non deve pesare esclusivamente sull’Italia perché è una questione europea e ogni stato, nolente o volente, deve fare la sua parte. Se i partner europei, affezionati al “mors tua, vita mea”, dovessero continuare a fare le orecchie da mercante difronte a un dramma, che a mio modesto parere rischia di far collassare il nostro assetto sociale, allora non ci resterebbe altro che mettere in discussione la nostra partecipazione alla comunità europea.